A cura di Giuseppe Ventesimo.
Dottore Magistrale in Relazioni Internazionali e Studi Europei.
L’Italia nella giustizia è stata ed è ancora “maglia nera”, in vetta alle classifiche europee, per quanto concerne la durata dei processi nei vari ambiti, amministrativo, civile e penale. Infatti è una questione annosa, che si protrae da moltissimo tempo, dibattuta non soltanto a livello nazionale, ma specialmente a livello sovranazionale.
Secondo il rapporto della Commissione Europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ) il numero dei procedimenti civili pendenti è sceso e la durata si è ridotta, ma comunque la giustizia italiana resta tra le più lente e farraginose d’Europa. Siamo gli ultimi in terzo grado di giudizio, penultimi sia in primo grado sia in secondo grado davanti a Malta e Grecia. Confrontando e comparando con gli altri paesi europei, la durata media dei processi in Italia è di 7 anni e 3 mesi, mentre in Germania è di 2 anni e 4 mesi, in Francia di 3 anni e 4 mesi, in Spagna di 3 anni e 5 mesi. Guardando all’interno dell’Italia, la durata media dei processi è molto diversa. Nel Nord Italia la durata media dei processi è di 305 giorni, nel Centro Italia è di 370 giorni, mentre nel Sud Italia è di 518 giorni. Dunque la patologia della lungaggine dei processi non è solo nazionale in comparazione con gli altri Stati europei, ma anche interna nelle diverse regioni e aree geografiche italiane.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia ripetutamente con molte sentenze, lamentando l’inefficacia e l’inefficienza del suo sistema giudiziario, ponendo l’accento e l’enfasi sulla continua e ripetuta violazione dell’art. 6 della Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), il quale recita che “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica causa e udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”.
L’Italia non era dotata e munita di una legge che disciplinasse e regolasse questo ambito della giustizia. Infatti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva constatato le numerose trasgressioni e violazioni al termine “ragionevole” contenuto nel testo della CEDU, a tal punto che l’Italia rischiò di essere sospesa dal Consiglio d’Europa.
Il Governo italiano dopo tali condanne ha dovuto dimostrare ed agire sulla riforma della macchina giudiziaria, ovviando all’ “horror vacui” dell’ordinamento giuridico italiano. Da qui viene riformulato con la legge costituzionale n.2 del 1999 l’art.111, comma 1, della Costituzione Italiana, che si adegua e si conforma ai principi della CEDU, il quale reca che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. Sempre l’art.111 della Costituzione, comma 2, ribadisce che “La legge ne assicura la ragionevole durata”.
Data la natura programmatica della norma costituzionale, per rendere più effettivo e per cementare questo principio nell’ordinamento italiano viene emanata la Legge n.89 del 2001, denominata Legge Pinto, al fine di contrastare le eccessive lungaggini dei processi, che hanno caratterizzato e caratterizzano l’Italia e che ha previsto il diritto all’equa riparazione per il mancato rispetto del “termine ragionevole” di durata del processo. In questo modo ci si è conformati anche all’art.13 della CEDU che disciplina il diritto al ricorso effettivo. Così come all’art.34 CEDU, che norma il ricorso individuale e l’art.35 CEDU, il quale recita che si può adire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo soltanto dopo aver esperito tutti i ricorsi interni. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per il suo carattere di sussidiarietà, ha la funzione di controllare, sorvegliare e vigilare le violazioni dello Stato. Lo Stato italiano non verrà meno al controllo del Comitati dei Ministri del Consiglio d’Europa sull’adempimento alla CEDU.
La legge Pinto disciplina ed esplica il significato di ragionevolezza del processo in termini quantitativi ed è diventata il fulcro della nuova garanzia processuale recitando che “colui che, attore o convenuto, è stato coinvolto in un procedimento giudiziario per un periodo di tempo irragionevole, ha diritto ad ottenere una equa riparazione indipendentemente dall’esito del processo”. La domanda di equa riparazione può essere proposta solo se ricorrono e sussistono tre requisiti fondamentali: irragionevole durata del processo, l’esistenza di un danno subito e il nesso causale tra i due elementi. Il termine di durata ragionevole si considera rispettato se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado e di un anno nel terzo ed ultimo grado, che è il giudizio di legittimità. Si intende rispettato il termine anche quando il giudizio viene definito in maniera irrevocabile (sono scaduti i termini per il ricorso oppure sono stati esauriti i mezzi di ricorso) in un tempo non superiore ai sei anni.
La durata del processo si calcola in maniera differente a seconda del tipo di processo di cui si sta trattando. Per il processo civile il tempo si calcola a partire dalla comunicazione ufficiale (detta notifica) dell’atto iniziale del processo oppure dal deposito della domanda al giudice. Il processo ha fine quando la sentenza diventa definitiva (dopo i tre gradi di giudizio oppure scaduti i termini del ricorso).
Per il processo penale il tempo si calcola a partire dal momento in cui l’indagato viene a conoscenza e al corrente del procedimento penale nei suoi confronti, tramite una comunicazione dell’autorità giudiziaria. Ha fine quando la sentenza diviene definitiva.
Per quanto riguarda il ricorso, ai sensi della Legge Pinto, deve essere presentato dalla persona lesa e che ha subito il danno derivante dall’eccessiva lungaggine del processo. Va proposto entro sei mesi da quando la decisione che conclude il processo è definitiva. Tuttavia a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale (sentenza n.88/2018) è stata riconosciuta la possibilità di proporre tale ricorso anche prima della chiusura definitiva del procedimento.
Il ricorso deve essere proposto alla Corte d’Appello del distretto in cui si trova il giudice davanti al quale si è svolto il primo grado di giudizio. Inoltre il ricorso deve essere proposto contro il Ministero della Giustizia se il procedimento contestato è ordinario oppure contro il Ministero della Difesa se il procedimento è militare. In tutti gli altri casi deve essere proposto contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Per quanto concerne le misure dell’indennizzo, il Presidente della Corte d’Appello deve decidere con un decreto esecutivo motivato entro trenta giorni da quando riceve la domanda.
Se il giudice accoglie il ricorso, ordina al Ministero interessato di pagare la somma riconosciuta come riparazione e la parte che propone il ricorso dovrà comunicare, tramite notifica, il ricorso e la sentenza del giudice al Ministero contro cui ha chiesto riparazione, altrimenti questo sarà inefficace e la parte lesa non potrà ottenere il pagamento e il risarcimento.
Nell’esaminare le ricadute che ha avuto la legge Pinto sul sistema processuale italiano, molti giuristi e tecnici del diritto hanno constatato ed evidenziato il fallimento di questo strumento, rivelandone l’inefficacia e l’inefficienza. Infatti lo strumento non sempre ha riconosciuto il risarcimento nei termini garantiti dalla Corte di Strasburgo, rendendo necessari ulteriori ricorsi e giudizi instaurati presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per ottenere le differenze dovute, andando ad ingolfare sempre di più le aule di giustizia. D’altro canto, la giusta riparazione non ha velocizzato i processi, perché lo strumento è stato concepito come riparatorio rispetto ad un danno già prodotto.
Dunque il legislatore ha dovuto provvedere di introdurre dei meccanismi che siano in grado di accelerare i tempi processuali, snellendo le procedure e la burocrazia, riportando il rispetto del principio della certezza del diritto, nel pieno ossequio alle persone coinvolte e ai principi fondamentali della nostra Costituzione.
Per queste ragioni la legge Pinto ha subito diverse rivisitazioni e revisioni, dapprima con le leggi n.134/2012 e n.64/2013, che hanno apportato notevoli modifiche sul piano sostanziale e processuale e successivamente con la Legge n.208/2015 (Legge di Stabilità 2016), con cui si è cercato di limitare i danni cagionati e derivanti dalla giustizia lenta e farraginosa a nocumento e danno dei cittadini.
Tra le principali modifiche sono da segnalare ed evidenziare, nell’ambito della procedura, dei “meccanismi preventivi”, attivi dal 31 ottobre 2016, volti a ridurre le innumerevoli ed infondate richieste risarcitorie. I contenuti dei meccanismi preventivi differiscono a seconda della tipologia di processo. Nel processo civile occorre presentare una richiesta di giudizio di cognizione sommaria, per ridurne la lungaggine. Nel processo penale, il rimedio consiste nel presentare al giudice competente una istanza di accelerazione dei tempi. Nel processo amministrativo, è opportuno sottoporre una istanza in cui si sottolinea l’urgenza del ricorso.
Tali rimedi devono essere esperiti in maniera preliminare, pena l’inammissibilità della domanda di equa riparazione. Dunque la parte lesa deve sollecitare l’Autorità giudiziaria per scongiurare i danni patrimoniali e non, derivanti dalla lungaggine del processo.
Infatti è molto importante rendere efficiente ed efficace il sistema giudiziario di un Paese, perché non ha solo conseguenze giuridiche e processuali, ma anche soprattutto conseguenze economiche e sociali. In effetti i sistemi giudiziari inefficienti allontanano le imprese dalla loro volontà di investire in quel determinato Paese. La Banca Mondiale sostenne e dichiarò per quanto concerne l’Italia che l’inefficienza e l’inefficacia della giustizia generi una perdita di circa l’1% del PIL annualmente.
Ci sono anche delle stime da parte di enti ed organismi internazionali sulle ricadute molto positive che avrebbe sull’economia e sul benessere sociale un miglioramento del sistema giudiziario. Ciò porterebbe alla nascita tra 192mila e 240mila nuove imprese nel nostro Paese, circa 14,1 miliardi annui di investimenti esteri, una riduzione della disoccupazione di 6 punti percentuali e una crescita della dimensione media delle imprese dell’8,5%. In più diminuirebbe il costo del credito e favorirebbe un maggior tasso di partecipazione al mercato del lavoro.
In conclusione, la Legge Pinto ha ottemperato ai continui richiami della Corte Europea dell’Uomo sui continui ricorsi ricevuti per la durata irragionevoli dei processi, ha fatto ridurre di poco i tempi giudiziari, ma presenta notevoli criticità che ostacolano l’obiettivo di velocizzare la durata dei processi. Infatti le rivisitazioni della Legge Pinto hanno portato a mere cure palliative dell’annosa questione, come ad esempio i “rimedi preventivi”, che caricano la parte lesa e il ricorrente dell’onere di presentare un’istanza, quando è già evidente al Presidente della Corte di Appello e al giudici il ritardo e la lunghezza del processo attraverso il Numero Ruolo Generale (N.R.G.). Con questo metodo non si fa altro che appesantire la burocrazia, zavorra della macchina amministrativa e giudiziaria italiana, invece che snellirla e semplificarla, strada intrapresa già da altri paesi europei. Adesso il PNRR dà una grande opportunità e sfida per migliorare il sistema giudiziario, ma la strada resta tortuosa e piena di sfide.